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> il vittoriano la scena le quinte, da "rinascita"


MILES ITALICVS

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Inviato il: Lunedì, 27-Set-2010, 09:53
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ll Vittoriano: la scena e le quinte

di Michele Bianco

“… le più belle creature viventi, e le più sane, sono quelle che più si avvicinano al canone della Divina Struttura […] alla stessa realtà dei viventi obbediscono le più belle opere d’arte: dubitare, significa soltanto: non capire”
IGNIS
Appunti su la scoperta della “Divina Proporzione”
20 settembre 1870. Porta Pia.
Le novelle Legioni italiche entrano vittoriose in Roma. La Città Sacra è restituita all’Italia, ridestando, così, le forze luminose della Tradizione Patria. Si compie il Risorgimento Italiano.
22 marzo 1885. Campidoglio.
Un sole primaverile illumina il Sacro Colle, diffondendo su di esso la sua luce apollinea.
L’ampio piazzale, realizzato in un’area dell’Arce del Colle Capitolino, è gremito dalla moltitudine silenziosa degli invitati, disposta sul padiglione a ferro di cavallo appositamente ideato per l’occasione dal conte Giuseppe Sacconi. Da li si apre una magnifica vista sulla Città Eterna.
Ore 14:30 in punto.
Giungono sul luogo, preceduti dall’onorevole De Renzis, il re Umberto I, la regina e i ministri. I Corazzieri si dispongono intorno al piazzale. Al centro, la bianca pietra, assieme alla quale verranno poste, “per i secoli”, in un tubo di cristallo e argento, gli esemplari di tutte le monete coniate durante il Regno Umbertino e una pergamena scritta. Le autorità trovano posto all’interno del padiglione e la cerimonia ha inizio.
Avuto il permesso dal re, l’on. Depretis dà lettura del discorso.
Dopo una descrizione del Monumento, che rappresenterà un’altra pagina di gloria per l’arte italiana, il presidente del Consiglio ribadisce come “nessun posto poteva essere scelto migliore del Campidoglio, sopra quella Roma tanto celebre per sapienza di leggi, per virtù cittadine e per valore nelle arti”.
Conclude l’orazione ricordando come ai tempi dell’antica Roma, nel piedistallo della statua di Giove Statore avrebbero scolpite le parole memorabili di Vittorio Emanuele II: “Ci siamo e ci resteremo!”.
Lo spiazzo è colmato dallo scroscio di calorosi applausi.
L’onorevole De Renzis, presa la pergamena redatta a memoria dell’avvenimento, la legge solennemente:
“Qui, sul Colle Capitolino, questo giorno 22 marzo 1885 fu posta la prima pietra del Monumento a Vittorio Emanuele, presenti i ministri, i rappresentanti esteri, i rappresentanti della nazione e la popolazione romana”.
Quindi, il diploma, dopo essere stato firmato dalle autorità presenti, è posto all’interno del cilindro di cristallo insieme alle monete, che, a sua volta, è inserito all’interno della pietra.
Il re toglie con un cucchiaio da un bacile, entrambi d’argento, un po’ di calce e la getta sulla lastra interna di chiusura. Poi, con un martello, sempre d’argento, portogli dal conte Sacconi vi batte sopra. La pietra viene seppellita in una buca preparata proprio dal Sacconi nel punto ove verrà fondato il terzo pilone del Vittoriano.
In questo momento la campana del Campidoglio comincia a suonare e viene intonato l’inno reale, mentre i numerosi invitati acclamano al re d’Italia.
Così il rito di fondazione è concluso!
Come un novello tempio romano, il monumento a Vittorio Emanuele è consacrato sul suolo del Colle Fatale affinché gli Dèi di Roma pongano sotto la propria tutela le sorti della giovane e risorta Nazione Italica.
Ciò che abbiamo ora narrato è la cerimonia di fondazione del Vittoriano, opera che, come scrisse l’insigne archeologo Giacomo Boni, Giuseppe Sacconi avrebbe ideato per svolgere il concetto di unità patria. E tale è il significato profondo del monumento a Vittorio Emanuele II, che connette direttamente alla tradizione italico-romana attraverso l’armonia delle sue forme e i temi in esso rappresentati nei vari gruppi architettonici: dalle quadrighe trionfali poste sopra i due propilei dell’Unità e della Libertà, sino ai gruppi bronzei dell’Azione e del Pensiero. Ma è soprattutto nel suo nucleo centrale che si concentra la forza ideale del monumento, nucleo composto dal simulacro equestre del primo re d’Italia e dal suo basamento, l’Altare della Patria, allegoria dell’Amor Patrio che pugna e vince e del Lavoro che edifica e feconda, simboleggiati da due cortei trionfali che muovono verso il Centro del Mondo, l’Alma Roma, CAPVT MVNDI. Ai piedi della monolitica statua della Dea riposa solennemente l’Ignotus Miles.
Per carpire appieno il significato di un’opera immane come è il Vittoriano, risulta necessario comprendere la fonte di ispirazione del suo autore, animo illuminato dal Genio italico. E poiché solamente quando l’opera dell’uomo rispecchia l’ordine cosmico assume quei canoni di bellezza assoluta che caratterizzano il lavoro del vero artista, ci accingiamo a descrivere l’animo del conte Sacconi prendendo spunto dalle parole usate da Giacomo Boni in una lettera pubblicata dall’illustre archeologo su Il Corriere d’Ascoli del 26 maggio 1907, un anno e mezzo circa dopo la morte dell’architetto:
“Giuseppe Sacconi con potente intuizione d’arte indagò le origini più remote della nostra architettura sino a toccare quell’unità della prisca arte italica della quale egli aveva, primo tra gli architetti moderni, sentite, analizzate e ricomposte le proporzioni e lo stile, perché fosse simbolo e vincolo ai popoli dell’Italia nuova.
Educato tra i monumenti romani, alla scuola sacra di Luigi Rosso, egli si era aggirato tra i ruderi dell’Urbe e della campagna ad osservare, a misurare, a disegnare i cornicioni e i capitelli, le sagome e gli ornati, come prima di lui avevano fatto i Leon Battista Alberti, i Donatello e gli altri sommi del Rinascimento.
L’ultima volta che Giuseppe Sacconi venne al Foro, sostò a lungo vicino al Tempio dei Dioscuri (l’edificio ch’egli prediligeva ad ogni altro monumento romano), e nel congedarsi mi serrò forte la mano, ringraziandomi d’aver piantato gli italici lauri, i lauri purificatori accanto all’ara della ninfa italica … Mi lasciò con uno sguardo che pareva già assorbito nell’idea dell’infinito.
Per Giuseppe Sacconi, come per i grandi dell’antichità, l’architettura non si reggeva soltanto nella statica, ma spingeva le radici, che le servirono non di appoggio soltanto, negli strati più profondi dell’anima umana da cui sembra nutrirsi per fiorire quale esponente dell’indole e delle attitudini della razza che la produce”.
Non a caso il conte Sacconi, amico fraterno del Boni, per la realizzazione delle colonne del sommo portico utilizzò il modulo ricavato dallo studio analitico delle colonne del Tempio dei Castori al Foro Romano (m. 0,148).
Dalle ispirate parole di Giacomo Boni si comprende bene come il Sacconi, grazie al proprio geniale istinto e ad una innata capacità di pura sintesi, fu in grado di infondere nell’opera sua quelle concezioni armoniche in grado di far sì che il monumento (troppo spesso ingiustamente denigrato da coloro che non posseggono la visione delle giuste proporzioni) possa oggi, a quasi un secolo dalla sua inaugurazione, rappresentare quegli ideali di Unità e Concordia, Dignità e Giustizia che caratterizzano e sempre hanno caratterizzato la stirpe italica.
A significare come un’unica volontà avesse illuminato molte menti e mosso mille mani nella realizzazione del Vittoriano, vale quanto accaduto dopo la morte dell’architetto, avvenuta il 23 settembre 1905. Il monumento a Vittorio Emanuele II era lontano dall’essere completato. Si palesò il concreto pericolo di sconvolgimenti del progetto e dell’idea originale del conte, soprattutto riguardo all’Altare della Patria ed al suo fregio, per il quale il Sacconi non aveva ancora stilato un progetto definitivo. Fu così che molti esponenti del mondo culturale italiano, fra cui Gabriele D’Annunzio, Ugo Ojetti, Leonardo Bistolfi, Diego Angeli e lo stesso Giacomo Boni, si mobilitarono compattamente attraverso varie iniziative, con lo scopo di far pressione sulle autorità politiche affinché l’opera fosse completata rispettando la volontà del suo ideatore.
Sempre l’illustre archeologo Boni, in una lettera aperta all’onorevole Fradeletto pubblicata su Il Giornale d’Italia il 9 ottobre 1905, insisté affinché la Commissione Reale vigilasse “[…] a che non si eseguiscano opere arbitrarie bastevoli a scomporre quell’unità di concetto e di esecuzione, pregio di ogni vera opera d’arte e soprattutto di un monumento destinato ad esprimere, con la varia simmetria delle forme, l’unità dell’idea informatrice, unità artistica, simbolo di unità politica”, significando che “[…] È sola arte il riflesso dell’anima. Non sia (il monumento, ndr) immagine lapidea del necessario dispendio, né di quanto è personale nell’artista moderno, ma quale l’intuì e volle Giuseppe Sacconi, il riflesso dell’animo italiano, integrato con ogni aspirazione per l’avvenire, con la memoria nel passato sino alle radici più intime e profonde”.
Il Vate d’Italia, Gabriele D’Annunzio, propose in una solenne riunione della Società “Leonardo da Vinci”, che raccoglieva a Firenze il fiore degli studiosi d’arte e di lettere, indetta il 10 marzo 1907 per discutere sulle condizioni dei lavori al Vittoriano, un suo ordine del giorno, votato all’unanimità, attraverso il quale ricordare che “[…] il Monumento al re Vittorio Emanuele II in Roma, comprendendo nella sua architettura i più espressivi elementi del nostro stile classico riassunti e rianimati da una volontà nuova, doveva sorgere non soltanto in perpetua commemorazione di ciò che fu compiuto dal Liberatore e dal suo popolo ma anche in esaltazione delle forze ideali che sono da riporre su l’altare della patria e in affermazione della rinnovata coscienza nazionale che dal culto di quelle forze tende a promuovere la terza vita d’Italia”, esprimendo voto affinché “[…] quante sono in Firenze e in Italia società alleate a difesa della nostra arte, della nostra cultura e delle tradizioni nostre più illustri, levino anch’esse una parola di protesta concorde per impedire che si compia sul Campidoglio lo sfregio a un’alta idea di bellezza e per chiedere che si deliberi senza indugi una inchiesta leale su tutta l’amministrazione e su tutta l’ordinazione dei lavori del Monumento dedicato al nome del primo Re e al gran nome italiano in Roma nostra”.
Così, grazie alla volontà unanime di tutti coloro che combatterono per affermare l’idea sacconiana e i suoi significati, lo scultore Angelo Zanelli, altro gigante dell’arte italiana, il 30 novembre 1911 vinse il concorso per la realizzazione del fregio dell’Altare della Patria. E sorse nel cuore del Vittoriano quell’opera superba così come oggi la conosciamo, in perfetta armonia con l’animo e i significati del monumento stesso. Anzi, per dirla con le parole di Alfredo Labbati in un articolo pubblicato su Il Tirso del 4 giugno 1911 (data di inaugurazione del monumento), lo Zanelli, nella realizzazione del fregio, aveva compreso che “[…] l’Altare doveva essere come la sintesi di tutto il monumento […]”.
Lo scultore capì perfettamente che il Sacconi aveva concepito la sua opera sviluppandola nel tempo attraverso la rappresentazione simbolica delle forze costituenti la Nazione Italica.
Ideò, conseguentemente, la sua scultura in sintonia con le modalità concettuali volute dal conte, concependo il fregio, che tanto ricorda i rilievi dell’Altare di Pergamo, come l’esaltazione simbolica dell’animo italiano. Per far ciò, trasse ispirazione dalle opere di Virgilio, in particolare, dalle Georgiche, che celebrano l’idillio industrioso dei campi, e dall’Eneide, ove vengono narrate le gesta dell’Eroe troiano e l’epopea romana. E tali, profondi significati vennero rappresentati attraverso lo svolgimento di due cortei trionfali procedenti verso il centro dell’Altare: quello di sinistra, chiamato anche “Il gruppo dell’Aratro”, simboleggiante il trionfo delle opere di pace che, come giustamente è stato osservato da Simona Antellini, richiamano alle antiche virtù romane della laboriosità, della devozione e del culto della famiglia; quello di destra, significante l’Amor patrio che pugna e vince, con il Genio della guerra accompagnato da giovani vestali che trasportano il braciere del sacro fuoco verso la Potenza numinosa di Roma, raffigurata dalla statua della Dea nella sua veste di Minerva hastata e sul cui asse verticale si erge la statua equestre del primo re d’Italia.
È così che l’Altare della Patria venne a sorgere al centro del Vittoriano quasi a simbolo di una novella Regia, ove i simulacri di Giove, Marte e Quirino, triade arcaica di Roma, ritrovarono il loro giusto posto all’interno dell’Italia ricostituita.
E come nei pressi della Regia antica ardeva, nell’Aedes Vestae, il fuoco sacro dell’Urbe arcana, similmente di fronte all’Altare della Patria arde il fuoco sacro della Patria nostra, perennemente vigilato dai novelli militi italici affinché mai si possa spegnere.
Attraverso l’Altare è anche simboleggiato l’incontro di Marte, quale Amor che pugna, con Venere, nella sua veste di Amor fecondante che crea il bello, dall’unione dei quali è generata Roma. E ciò riporta anche al meraviglioso significato dei miti, ove Enea, capostipite troiano della stirpe romana, è generato dall’unione del Padre Anchise con la Dea Venere, mentre Romolo, fondatore dell’Urbe, è nato, assieme al suo gemello Remo, dall’unione di Rea Silvia con il Dio Marte.
Non a caso, nel giorno di passaggio tra i mesi marzo e aprile (Marte e Venere), il 31 marzo 1925, fu consacrata con solenne rito l’attuale statua della Dea Roma (che sostituì la precedente dall’aspetto più arcaico ma dai caratteri decisamente meno potenti). Il colosso monolitico di marmo botticino, alto più di cinque metri e pesante circa trenta tonnellate, fu trasportato dal cantiere dello Zanelli, situato a Porta Maggiore, sino a piazza Venezia, e fu issato sul sito, predisposto con l’inserimento di alcune monete dell’epoca sotto la base, per la successiva inaugurazione dell’Altare, celebrata nel giorno del Natale di Roma dello stesso anno.
Le stesse forze della Tradizione Nostra Romana che avevano determinato la Vittoria delle novelle Legioni italiche nella Grande Guerra vollero che tale rito avesse luogo. A testimonianza di ciò valgono le parole dello Jerofante che si celava dietro lo pseudonimo di Ekatlos: “Oggi si lavora al Vittoriale, nella cui nicchia centrale sarà collocata la statua di Roma arcaica. Possa questo simbolo rivivere, in tutta la sua potenza! La sua luce, splender di nuovo!”. E Roma hastata, portatrice della Forza Vittoriosa, rifulse di nuova luce nonostante secoli di fanatica ed empia oppressione.
Si capisce come una tale, poderosa opera, pregna di così alti significati, non potesse essere realizzata che da un animo grandioso come quello dello Zanelli, che, appena quindicenne, lavorava nelle cave sopra Mazzano, nel bresciano, a segare proprio quel marmo botticino che sarà utilizzato per la realizzazione del Vittoriano.
Personaggio molto simile, nel profondo, al Sacconi, dotato anch’egli di una straordinaria capacità di sintesi, come l’architetto era attratto dalle perfette forme della natura, che, come ce lo descrive Mario Lago, ancora adolescente, amava studiare isolandosi nelle montagne vicino Salò, annidandosi, come un “[…] faunetto selvatico e fantastico, in qualche grotta piena di silenzio, velata d’amore, aperta sul lago”.
Per rendere bene la grandezza di una figura così straordinaria, ci pregiamo di narrare un episodio descritto nell’articolo pubblicato da Antonio Maraini, collaboratore del grande scultore, su La Tribuna del 2 dicembre 1911, intitolato “Nello studio di Angelo Zanelli durante l’opera. Come si svolse l’esecuzione dell’altorilievo vittorioso”.
Lo scultore, dipinto all’opera con il suo “[…] berretto frigio stretto intorno al capo come una carezza di tenero affetto, poiché lo avevano tessuto a maglia con filo rosso le mani industri della sua sposa a fargliene un talismano”, inaugurò “un bel giorno”, nel suo studio, le macchine immense da lui stesso costruite, realizzate per salire in alto sui ponteggi e per misurare le singole parti del fregio, che “[…] quadrate come torri, si allineavano nell’ampio studio, ciascuna dinanzi ad una delle impalcature fissate, diritte, contro il muro. Quel giorno fu festa. La signora Zanelli benedisse le macchine con lo spumante e le ornò con un ramo di alloro; il maestro impresse su ognuna in larghe lettere romane il nome delle quattro dee protettrici, Atena, Bellona, Cerere e Diana, e da queste pregò favorevole gli auspici. Noi lanciammo con gli evviva la prima manciata di creta sulle ampie tavole nude ancora, dove di lì a quattro mesi dovevamo aver posta l’opera compiuta”.
Con il lento sorgere del Vittoriano e, potremmo dire, per mezzo di esso, si formò la novella Italia, rappresentando idealmente il centro degli eventi che la caratterizzarono dalla fine dell’ottocento agli anni ’30 dello scorso secolo.
Come giustamente osservò il Venturoli nel suo La Patria di marmo, “nel monumento dell’unità nazionale si era ripetuto il sortilegio del Risorgimento”. Aggiungiamo noi che nel Vittoriano si manifestarono, per così dire, si cristallizzarono quelle forze che propiziarono, pochi anni dopo la sua inaugurazione, la vittoria italiana del 1918. Non a caso il conte Sacconi, già nel 1888, costretto dall’inatteso ritrovamento dei resti delle Mura Serviane, aveva previsto che il sommo portico (che si staglia sul monumento come corona turrita d’Italia) fosse composto da diciotto colonne (e non sedici come nel progetto originale e come verrà poi effettivamente realizzato), ognuna sormontata dalla statua di una regione italica, comprese anche la Tridentina e la Triestina, all’epoca sotto il dominio austriaco. Sembra come se l’architetto fosse precursore di quegli eventi storici che consentirono il ristabilimento dei sacri confini d’Italia, così come furono statuiti dall’Imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, Padre della Patria.
Poco prima della sua morte, lo stesso Sacconi, in una lettera a Luca Beltrami, che gli aveva dedicato un inno nel 1905, così scrisse:
“[…] quanto tu hai creduto scrivere della mia opera, che va man mano sorgendo sulle falde del Campidoglio, pur essendo superiore ad ogni mio merito, io l’accetto come attestazione dei tuoi buoni sentimenti a mio riguardo, e perché mi è di conforto in questi giorni di preoccupazioni e di timori. Possano le tue parole, non per me, ma per il concetto politico e storico dell’opera, far comprendere agli italiani, nella giusta e vera misura, l’importanza del monumento, affermazione assoluta della redenzione loro […]”.
Che le sue parole risuonino oggi come il più alto degli auguri.
Quod bonum Faustumque sit!

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