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> gabriele d'annunzio e il re di roma, il ghibellino 2 serie


MILES ITALICVS

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Inviato il: Giovedì, 04-Giu-2009, 13:49
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GABRIELE D’ANNUNZIO E IL RE DI ROMA

<<..Chi potrà disperare
delle sorti del Mondo, finché
Roma sia sotto i cieli?...>>

Gabriele d’Annunzio è un autore contemporaneo che non trova il posto che gli spetta nella letteratura contemporanea per il veto opposto dai pontefici della cultura ufficiale a quanto nelle sue opere è contenuto e all’azione politica che animò tutta la sua intensa esistenza.

L’unico merito che la critica letteraria non ha potuto fare a meno di attribuirgli è l’aver saputo creare pagine in cui il linguaggio assurge a vette di elevata musicalità e si estrinseca in una vivissima potenza armonica ed espressiva.
Il presente scritto non intende tessere le lodi o celebrare il “poeta-vate”: vuole soltanto mettere in evidenza un Archetipo Eterno che, per l’intensità del suo contenuto, percosse le corde del suo animo e fu da lui evocato in modo impareggiabile.
“Le Vergini delle Rocce”, l’opera a cui intendiamo rivolgerci, non è certamente una produzione marginale della sua attività letteraria. Però occupa un posto a parte e, nelle intenzioni del suo autore, era destinata a far parte di una trilogia, i Romanzi del Giglio.
Il protagonista del romanzo, Claudio Cantelmo, è un giovane aristocratico disgustato della società del suo tempo, che ha posto alla base della sua esistenza la ricerca della perfezione interiore – “l’autocrazia della coscienza” - . La sua vita ha un solo scopo, quello di trovare una Donna degna di unirsi a lui, perché dalla stirpe dei Cantelmo possa nascere il futuro Re di Roma, chiamato a riportare l’Imperium nell’Urbe e dall’Urbe – nel Mondo.
Nella sua ricerca conosce tre fanciulle – Anatolia, Massimilla, Violante – figlie del Principe Luzio che Claudio ritiene possano realizzare il suo sacro disegno e tra le quali potrà scegliere la Donna che dal suo seme genererà “Colui che deve venire”. Nell’intricato rapporto con esse, descritto in uno stile cesellato ed armonico si conclude il romanzo la cui vicenda non giunge a compiersi perché il d’Annunzio neppure iniziò le altre due opere della trilogia, le Grazie e l’Annunciazione.
Dal contatto diretto con un divino dàimon interiore Claudio Cantelmo, in alcune pagine più intense e “magiche “ del romanzo, mostra di attingere le sue certezze secondo un modo di Conoscenza che fu proprio della Tradizione Classica e che mai nessuna dogmatizzazione o credenza guelfa potrà estinguere: <<… Fuma dalle fenditure di quel suolo un vapor febrile che opera sul sangue di certi uomini come un filtro, producendo una specie di demenza eroica dissimile ad ogni altra… Tutto qui è morto, ma tutto può rivivere all’improvviso in uno spirito che abbia una dismisura e un calore bastevoli a compiere il prodigio… Colui il quale potesse contenerla nella sua coscienza parrebbe a sé medesimo e agli altri invasato d’una forza misteriosa e incalcolabile, assai maggiore di quella che assaliva la Pitia antica. Per la sua bocca non parlerebbe il furor d’un dio presente nel tripode, ma sì bene il genio stesso delle stirpi custode funereo d’innumerevoli destini già compiuti… E un’altra volta le moltitudini si chinerebbero davanti all’apparenza divina della sua follia, non come in Delfo per sollecitare le oscure apparenze del dio obliquo, ma per ricevere il lucido responso della vita interiore, quel responso che non diede il Nazareno…Di tale colore erano i pensieri che mi suscitava l’aspetto di un luogo il qual fu – secondo il verbo di Dante - dalla stessa natura disposto all’universale imperio: ad universaliter principandum…>>.
E’ ovvio che pagine siffatte venissero definite dai depositari della moderna cultura un’”elucubrazione teoretica e messianica” e “razzistico-superstiziosa” ma la loro opinione non ci interessa.
Ebbe a scrivere qualcuno che “un uomo può imparare molte cose, ma la cultura non è conoscenza. Le sole fonti della Conoscenza sono la certezza interiore e la divina percezione”.
Ed è a coloro per i quali la Conoscenza è certezza interiore e divina percezione che la vicenda di questo romanzo intende rivolgersi.
Vi sono delle idee che, per la forza di cui sono pregne, hanno il potere di esercitare il loro fascino e di attrarre magicamente a sé gli animi più sensibili ancor prima della loro epifania. E’ il caso de “Le Vergini delle Rocce” e del suo autore. L’avvento di un Re di Roma non è una mera invenzione letteraria di d’Annunzio per dare un tono di classica epicità al suo romanzo: è un Fato, un Destino che dopo secoli di oblio e di barbarie risorge come la Fenice dalle sue ceneri, perché il nome di Roma non può perire essendo in esso e nel suo sacro pomerio racchiuso il destino dell’Occidente.
Questa occulta verità era conosciuta da coloro che a Roma vennero perché la loro credenza superasse la soglia dei secoli e diventasse universale. Questo fu il fine immediato per cui lottarono Paolo di Tarso e tutti i suoi successori e per cui vollero che l’antagonismo tra cristianesimo ed Impero si risolvesse in uno scontro mortale per l’uno o per l’altro: insediarsi stabilmente nell’Urbe e tenere lontana da essa qualunque corona che osasse insediarsi, fosse quella degli Staufen o dei Savoia. E non vogliamo apparire degli illusi esaltatori della romanità nell’affermare che qualunque dinastia o credenza o religione, per quanto particolare o limitata possa essere, nel momento in cui risiede stabilmente nel sacro suolo di Roma riceve da questo stesso fatto legittimità e universalità. Così come la religione venuta a predominare in Occidente, per quanto grande e valido fosse il suo messaggio, senza questo crisma si sarebbe al massimo estesa a qualche deserto in più della Cirenaica o del Sinai. Affermando questo non vogliamo apparire profanatori o giacobini – non essendo il nostro uno stile improntato sull’intolleranza - : vogliamo solo mettere in luce, al di là delle contraffazioni guelfe, il solo motivo per cui il cristianesimo venne a Roma. Esso, per quanto cattolico e romano si possa professare, resta estraneo nell’essenza e nella sostanza alle origini di Roma: questo vuoto non è mai stato colmato dal papato e soprattutto oggi si sente questa vacanza.
Coloro che si rifanno a Roma e al suo mondo non nella veste di adoratori del passato ma di vigili e silenti testimoni del presente sanno che il suo Nome e il suo Nume ,si sono occultati ma ancora vivono, che il suo fuoco ancora arde perché a nulla valgono le tenebre più fitte contro la Luce seppur fioca di una lucerna. Essi sanno che la Storia è il risultato di Forze che - una volta giunte a maturazione – dall’alto discendono nel presente e s’incarnano nella volontà degli uomini.
Tutti questo sanno: e la loro certezza è data dalla validità di una profezia.
Un Re di Roma “perché un rito si compia e un carme di gloria si accenda nell’Urbe”.

Il Ghibellino riprende le pubblicazioni in un momento in cui il guelfismo, antica piaga d'Italia e d'Europa, ha ricominciato a diffondersi, avvalendosi del favore dell'epoca attuale, trista e oscura, e dell'ignoranza delle giovani generazioni, alle quali una scuola profana e rinunciataria non insegna più nulla della vera Tradizione degli antichi padri."



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Lucio


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